In this post I report a brief review of an excellent photographic book entitled “Con gli occhi di un Amaziɣ”, a book by photographer Ivan De Francesco, published by Communickare, an Italian Publisher. The book has an emblematic title: “No place is precise”… (the review is in Italian language)
Non mi capita spesso di recensire libri interamente fotografici, non penso sia affatto facile, perché la fotografia è evocativa, polisematica, spesso e difficilmente le impressioni di un lettore (critico) corrispondo a quelle dell’Autore, ma conosco il fotografo (un caro amico “leicista” come me), Ivan de Francesco, e conosco la gente dei luoghi del suo réportage, gli Imaziɣen, la gente berbera che abita in quella sua, nostra cara Tunisia, una terra dove Ivan vive ed io vado ogni tanto a trovare cari amici come lui e sua moglie Francesca.
Gli Imaziɣen si definiscono semplicemente “uomini liberi”, e sono liberi, come liberi sono i luoghi e gli spazi della propria terra. Ho potuto riflettere a lungo sull’orgoglio di ogni Amaziɣ, tempo fa, quando, parlando di tradizioni e cultura tunisina, francese e italiana con un caro amico che rappresenta ai massimi livelli la cultura tunisina, egli mi disse: «Sì, però io sono berbero»; non per volere differenziarsi dai suoi concittadini ma per rimarcare, orgogliosamente, appunto, le tradizioni delle sue origini, quelle dei berberi, in buona parte anche orali, provenienti da secoli di vita nel deserto. Discussione avvenuta, si noti, in quella metropoli oramai arabo-europea che è la grande, immensa Tunisi, luogo di incontro di culture, popoli, tradizioni varie, ma anche immagini, colori, volti e sguardi, costumi antichi e moderni…
Tutto questo immagino sfogliando il libro di Ivan De Francesco (con l’editing di Maurizio Beucci, di Leica Akademie Italia).
Ivan ci presenta un preciso réportage di luoghi …imprecisi, come nota il sottotitolo del volume e lo fa avendo in mente il pensiero di Luigi Ghirri, fotografo che pensa la fotografia come arte che nasce per esplorare e rappresentare quell’infinitamente piccolo in rapporto all’infinitamente grande, passando per l’infinitamente complesso. Complesso come l’Uomo, nella sua apparente “semplicità” della vita quotidiana.
C’è una cosa che accomuna il mio modo di intendere la Fotografia a quello di De Francesco: l’attenzione alla vita quotidiana, ai piccoli gesti, alle cose apparentemente umili, alla luce che sgorga dagli angoli meno rappresentati da chi cerca solo l’estetica, il ritratto “costruito”, la tecnica a tutti i costi; l’attenzione minuziosa ai luoghi, le case, gli anfratti di una città, di una campagna, gli sguardi una persona comune, fuori dai clamori… Non che non vi siano nelle fotografie di Ivan la tecnica e l’estetica, ma questi aspetti non sono prevalenti rispetto all’attenzione – per questo parlo di réportage – e allo studio di cosa sta dietro a quei volti, quelle case, quei luoghi, in una parola quella cultura che sembra così lontano dalla nostra, oramai troppo intrisa di “social” che conducono poi a modelli asettici e costruiti, quelli dei VIP, dei personaggi mediatici, del lusso e dell’alta moda e del consumismo diffuso, sempre più triste e fine a sé stesso.
Non è tutto qui il linguaggio fotografico di Ivan De Francesco. Roberto Cotroneo, nel suo scritto contenuto nel volume, afferma che «Nell’ultimo decennio la fotografia è profondamente cambiata» e parla dell’influenza del Mercato, in due direzioni: da un lato la lunghezza del racconto letterario e dall’altro l’aspetto stilistico, nel senso che ai nostri giorni la fotografia digitale esige un’immagine immediata che abbia attenzione «ad un uso del colore e della nitidezza completamente diverso rispetto al passato». Una dualistica tensione tra “narrazione lunga” e “immagine che porta all’evocazione breve”; breve ma immaginifica. Con la sua Leica, Ivan De Francesco sa farci apprezzare una sintesi non semplice, sa narrare e fare evocare lunghi pensieri da una immagine immediata, ma precisa, sa “cavare fuori” storie dall’apparente immobilità di una foto di réportage “congelata” e tratta da una storia che va al di là dell’attimo rappresentato.
La tecnica, si diceva. Non si può eccepire nulla alla bravura di Ivan (né, ovviamente, a quello che sa tirare fuori dalla perfezione già insita nella fotocamera Leica che egli usa). Ma, come detto, è una tecnica che non deve prevalere sul racconto, diciamo che è l’applicazione di una tecnica precisa e di una composizione ottima ad un quotidiano che rappresenta l’imprecisione di luoghi “imprecisi”, volutamente Ivan mette in luce questo binomio. Ad esempio (può sembrare curioso), ogni foto riporta come didascalia le coordinate esatte, geolocalizzando il luogo fotografato, che “non è preciso”, culturalmente parlando, ma è pur sempre da qualche parte, da una parte precisa del pianeta. Non è leziosità, ma, appunto, il suo modo, di raccontare.
Così anche la foto di una sedia e un tavolino con una bottiglia hanno la georeferenziazione, le coordinate, sono in un preciso luogo che …non è però “preciso”, perché rappresentano una casa, un proprietario, una persona, ma quella persona, quel proprietario, quella sedia, quella bottiglia sono solo ipostasi di un popolo, di una gente fatta di uomini liberi, e liberi anche da convenzioni e “gabbie” culturali che spesso circondano noi moderni europei (anche africani).
Una foto “con frigorifero e ombrelloni” può sembrare, decontestualizzata, un angolo della mia casa di campagna, altrettanto zeppa di oggetti, di ombrelloni (e frigoriferi vecchi), ma non è la mia: è quella che è presente in quelle precise coordinate, e vi si legge, in trasparenza qualcosa della cultura amaziɣ, berbera, quello che il fotografo vuole raccontare con quello scatto. E potremmo continuare, con la foto dei montoni, della carriola, dell’asino, fino al cammello (questo distingue quelle terre dalla mia campagna, ma non da quel Maghreb, quella nostra cara Tunisia che pure lo ha per simbolo quel cammello; ma qui quel cammello è pure localizzato (sempre in un luogo che comunque rimane “impreciso” nel senso suddetto). La bambina “con la maglietta Minnie” parla da sé, dietro di lei quella casa diroccata, rovine di un tempo e al contempo anelito di futuro. E ancora cammelli e asini docili, poi l’uomo che conduce il montone (non sto a dirvi delle ottime tradizioni culinarie di quei popoli, a questo riguardo) …
Un réportage che fa venire voglia di tornare in Tunisia e viaggiare nel sud del Paese, per incontrare – oltre le bellezze dell’Africa Romana – gli Imaziɣen, gli orgogliosi berberi, con Ivan De Francesco e le fotocamere Leica, per continuare il racconto, magari insieme, a lui, a loro.
Salvo Micciché




PS: I deliberately put in this post “the photos of the photos”, taken with a mobile phone, because the real photos, the Reader is invited to admire them and contemplate them in the volume of De Francesco (Editore Comunickare, Casarano)